Una domanda di Gesù nel tempo della passione
“Se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18, 23b)
La parola è un gran dono di Dio. Essa dà volto ai miei pensieri. Da corpo ai miei sentimenti, aprendo il mio cuore come un libro che possa essere letto.
La parola in ebraico è DABAR che nello stesso tempo significa FATTO.
La parola ha una sua consistenza, non è mai un “flatus vocis” direbbero i latinisti, non è un soffio vocale e basta.
Del resto Gesù è la Parola fatta carne. Parola e Carne.
E nell’Antico Testamento la potenza e la ricchezza della Parola è data fin dalla creazione: “Dio disse e tutto fu fatto”.
Le parole trasmettono sapienza e scienza, le parole consegnano promesse, le parole contengono impegni.
Possono anche procurare ferite difficili da guarire se non col balsamo dell’amore.
Le parole hanno poteri reconditi: illuminare, confortare, correggere, esortare e anche scoraggiare e spegnere.
Ecco, Gesù che si è trovato davanti ad Anna Sommo Sacerdote emerito.
L’interrogativo è serrato e provocante. Gesù conserva la calma.
Gli chiedono di parlare dei contenuti del suo insegnamento. Gesù risponde con pacatezza. Ma una delle guardie presenti, per eccesso di zelo, per ingraziarsi l’autorità religiosa, appioppa a Gesù uno schiaffo!
E Gesù guardandolo con amore, replica: “Se ho parlato bene, perché mi percuoti?”
È la muta sconcertante violenza di un gesto gratuito, senza senso, senza motivazione. Perché?
Un gesto così è pesante come un macigno. Schiaccia non chi lo riceve, ma chi lo compie.
Un gesto così uccide il dialogo. E se il dialogo è ucciso è il deserto.
È la sordità. E può crearsi l’indurimento del cuore.
Occorre che io non stia a pesare le parole col bilancino di precisione del farmacista.
Occorre che io mi umili accettando e perdonando!
Occorre chi prega e rimedi.
Occorre in prima battuta dire:
“Padre, perdonali, non sanno quello che fanno.
Non imputare loro questo peccato”.